Questo cortometraggio è sicuramente uno dei film più interessanti realizzati da Ceste per capire il suo personale lavoro sulla memoria delle immagini. Il cinema è documentario e finzione, - dichiara Armando Ceste - ma il rapporto non è più corretto, c’è un 90 per cento di finzione e un 10 per cento di documentario, mentre quello giusto sarebbe 50 e 50. La verità è che oggi non facciamo il cinema che dovremmo fare, ma del resto non facciamo neppure la vita che dovremmo fare, altrimenti non faremmo film. Un’anziana donna tibetana e Jean-Luc Godard parlano di sé e delle loro vicende. Un film sulla memoria personale, immagini di un passato autobiografico. Un passato che non è morto, anzi non è neanche passato. Una memoria di emozioni viste attraverso altre memorie di emozioni. Ogni storia - ogni vita - ha un inizio, un centro e una fine, anche se non necessariamente in quest’ordine. L'autore intreccia il proprio materiale d'archivio con le immagini e le parole di un'intervista Jean-Luc Godard che ha ispirato anche il titolo con il suo film Due o tre cose che so di lei (Deux ou trois choses que je sais d’elle, 1966); le sequenze del Collettivo Cinema Militante che documentano la lotta per la casa nelle periferie torinesi negli anni '70, immagini del giovane Ernesto Che Guevara e del suo cadavere, insieme alla testimonianza di una vecchia donna tibetana ripresa dal regista a metà degli anni '80 durante un viaggio in Nepal. Il film, montato da Ernaldo Data e con la fotografia di Claudio Meloni, è stato proiettato in anteprima al XIII Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino del 1994 nella Concorso Spazio Italia dove ha ricevuto il secondo premio; la giuria composta da Fabrizio Grosoli, Carmelo Marabello e Isabella Ciarchi diede la seguente motivazione: Per la capacità documentaria di restituire nella finzione del montaggio la verità 24 volte al secondo. Il film fu selezionato nell'ambito di cinéma tout écran. Rencontres Internationales du Film in Svizzera a Ginevra (23 – 27 agosto 1995).
Il film di Godard ha rappresentato un punto di svolta nella sua filmografia; è la prima pellicola in cui l’elemento narrativo e quello non narrativo confliggono in maniera decisiva l’uno con l’altro. Il lei del titolo fa riferimento alla città di Parigi. Il film, interpretato da Marina Vlady, racconta con estrema intensità e forza quel particolare momento storico. Il regista francese è un vero e proprio file rouge nell’opera di Armando Ceste, che qui riprende il pensiero e le immagini di Godard dimostrando come il regista francese sia stato e sia ancora una delle menti più illuminanti della nostra contemporaneità. Steve Della Casa, La 25a Ora, La 7, 2005.
Nulla di quanto appartiene al film di Ceste è stato girato oggi eppure tutto è così straordinariamente presente. Bambini a una mensa. Immagini di movimento operaio. Jean-Luc Godard in corpo e voce. Fotografie di Che Guevara e le immagini del suo cadavere. Un’anziana donna tibetana. “Code” di pellicola e i colori indefiniti della memoria. Ceste lavora sulla memoria e sull’emozione. Da anni. Elabora materiali di un passato che non è morto, anzi non è neanche passato (Ceste). E con Due o tre cose annulla i confini tra realtà e finzione, penetra quella linea sotterranea che tocca l’attimo in cui si incontrano godardianamente il cinquanta per cento di finzione e il cinquanta per cento di documentario. Con Due o tre cose (che so di:) Ceste sovrappone testi, li fa incontrare, li ri-guarda e intervenendo su di essi mentalmente li ri-filma dopo averli già filmati un tempo oppure cerca in memorie altrui fissate su pellicola o video. Le immagini perdono la loro funzione d’archivio, testimoniano le incertezze del fine secolo, sono corpi del dolore, fisicamente presenti in un racconto naturalmente spezzato.
Giuseppe Gariazzo, «Cineforum», n. 12/340, dicembre 1994.