Rassegna Stampa

Abdellah, il Po e la morte
Massimo Novelli

Armando Ceste è un regista torinese che continua a credere in un cinema di denuncia politica, in un cinema militante, come si sarebbe detto una volta, che scava nella cronaca, e a volte nella storia, ma sempre dalla parte degli umiliati e degli offesi. Ne è significativa prova il suo ultimo lavoro, il documentario Abdellah e i suoi fratelli, incentrato sul delitto dei Murazzi del 19 luglio 1997: stiano parlando della morte per annegamento in Po del marocchino Abdellah Doumi, causata da un gruppo di «bravi ragazzi» torinesi. Quelli che, invece di salvarlo, gli urlavano «Bastardo devi morire». La morte per acqua e per razzismo (più o meno consapevole, ma oggettivamente razzismo) di Abdellah, è lo spunto, sia pure umanamente pesante, imprescindibile, per parlare della Torino di oggi. Cioè una Torino di immigrati, di diritti negati, di tensioni con gli italiani, dove l'extracomunitario diventa il capro espiatorio, come sempre è accaduto per il diverso e lo straniero, dei mali sociali. Ceste ha realizzato questo dolente documentario insieme al fido Beppe Rosso, attore bravissimo (e cosoggettista, cosceneggiatore) che non recita ma è, diciamo che è uomo e cittadino che cerca di capire come sia possibile fare morire un ragazzo come Abdellah. E come sia possibile tutto il resto. Il vecchio fiume Po, che taluni venerano alle sorgenti per una grottesca affermazione di presunta identità etnica, è qui, nel film, il costante motivo di fondo, il richiamo giustamente ossessivo. Se non altro perché nelle sue acque, oltre ad Abdellah, è annegato in manette un altro giovane immigrato, Khalid. Le immagini di Ceste lo colgono nelle notti di tragedia (quelle di Doumi e di Khalid), nei mattini incerti o di sole, nei canti tristi di giovani nordafricani ai Murazzi. Dal fiume, poi, e in questo suo continuo ritorno, il viaggio di Ceste e di Rosso prosegue per la città dei senza diritti, da Porta Palazzo (in una scena molto efficace, scena reale, alcuni vigili sequestrano, pensate un po', dei mazzetti di menta a un povero ambulante abusivo) al centro di detenzione di corso Brunelleschi. Qui e là nel racconto dei fatti, scandito dalla musica della 99 Posse, compaiono alcuni testimoni. Ci sono gli immigrati, il fratello di Abdellah, donne e uomini e bimbi stipati come sardine in stamberghe del centro storico, ragazzi che lavorano in nero. Poi intellettuali, e operatori sociali, esponenti religiosi: lo scrittore Younis Tawfik, don Luigi Ciotti, l'imam Bouchta Bouriki. Parlano anche alcuni cittadini, anzi cittadine di questa città: piemontesi ed ex immigrate meridionali, che non sono tenere verso i nuovi meridionali. E qui colpisce - o meglio, si conferma - come dietro all'intolleranza ci sia quasi sempre un'assoluta ignoranza. L'augurio è che il film di Ceste e di Rosso, che verrà presentato a novembre al festival del documentario del Torino Film Festival, venga visto da molti torinesi. Nell'epoca del Grande Fratello, finzione della finzione, Abdellah e i suoi fratelli racconta cose che sono accadute e che accadono sotto gli occhi e l'indifferenza, o la complicità, di troppi.

la Repubblica, 13/10/2000


Con don Ciotti nelle terre liberate dalla mafia una speranza nelle terre della mafia
Massimo Novelli

Non è un documentario qualsiasi questo del regista torinese Armando Ceste, che sarà presentato tra pochi giorni al Torino Film Festival. In quasi un' ora racconta intensamente un viaggio con don Luigi Ciotti nel Sud d' Italia, laggiù dove imperano la mafie e le collusioni politico-mafiose. Nel titolo, Libera Terra, c' è il senso del film-viaggio con don Luigi, in questi giorni sotto il tiro di An e dell' assessore regionale D' Ambrosio. è un percorso, da Torino a Corleone, che tocca i luoghi in cui è stata applicata, ma anche clamorosamente disattesa, la legge 109 del 1996 sulla confisca dei beni mafiosi e il loro riutilizzo a scopo sociale. Una legge che fu resa possibile della raccolta di circa un milione di firme promossa nel ' 95 dall' associazione «Libera», di cui don Ciotti è presidente. E liberarsi dalla mafia, nella Locride come a Salerno, a Castelvetrano come a San Giuseppe Jato, vuole anche dire restituire alla collettività le ville, le aziende agricole, i palazzi, la terra, che Cosa Nostra, la ' ndrangheta, la camorra, hanno accumulato con gli omicidi, il racket, la droga, la corruzione. Il film comincia con una veduta un tempo non immaginabile di Corleone, l' ex regno del boss dei boss Totò Riina: siamo nel maggio di quest' anno e, come ai tempi delle occupazioni contadine dei latifondi nel dopoguerra, si festeggia la nascita di una cooperativa agricola di giovani disoccupati sorta sui terreni appartenuti ai clan. E a Corleone si chiude, con le parole di don Luigi che ricorda come quella prima cooperativa libera nel paese di Luciano Liggio sia stata intitolata a Placido Rizzotto, il sindacalista fatto uccidere da Liggio e compari. Viaggia, parla, rammenta Falcone e Borsellino, don Luigi, Virgilio dell' antimafia, e dice che c' è «il dovere della memoria, la memoria della responsabilità» verso tutte le vittime della criminalità organizzata. Alla felicità per la «libera terra», tuttavia, si contrappone l' amarezza per quanto non è stato possibile fare, laddove la mafia, e gli intrecci con la politica sporca, sono ancora più forti della legalità. Di grande impatto emotivo, simboli devastanti di ciò, sono i fotogrammi che scandiscono l' impotenza, per ora, di fronte alle rovine di un ex albergo del clan Piromalli, che la ' ndrangheta ha bruciato dopo la confisca. Avrebbe dovuto diventare un centro per giovani. L' amarezza, in questo viaggio dalle molte luci e dal troppo buio che ancora persiste, si tramuta in accusa quando il fondatore del gruppo Abele denuncia quanto il governo di centrodestra non sta facendo nella lotta alle cosche. Frasi indignate, dure, che hanno un' eco in quelle di Gian Carlo Caselli sugli attacchi ai giudici antimafia. Ceste monta abilmente il presente e il futuro incerti, forse foschi, e il passato in bianco e nero: la strage di Portella della Ginestra, le bandiere rosse nei feudi, la morte di Falcone e di Borsellino, Totò Riina che dietro le sbarre si dice vittima di un complotto dei «comunisti». Ma c' è l' altro presente, l' altro futuro, che don Ciotti mostra a Ceste, suo compagno di viaggio. Li rappresentano gli ulivi piantati da una cooperativa di ex tossicodipendenti in un podere che fu del boss Binnu Provenzano, come l' ex villa di Riina, a Corleone, che oggi ospita la sede dell' Istituto Professionale dello Stato per l' Agricoltura. Ulivi al sole di Sicilia che sono speranza, riscatto, coraggio, giustizia. Terre brune coltivate da ragazzi che hanno il colore delle terre che i braccianti, guidati da Pio la Torre, assassinato da Cosa Nostra, occupavano negli anni Cinquanta.

la Repubblica, 25/10/2002


Ulrike Meinhof e Giovanna d' Arco in un ardito accostamento all'Amantes
Marina Paglieri

«ES IST SO UND ES IST NICHT SO» - è così e non è così - recita un antico detto tedesco. Armando Ceste l' ha scelto come chiave di lettura di una realtà tragicamente complessa, quella del terrorismo, in cui ciò che per una parte del mondo viene dipinto come il male assoluto, per altri non lo è. Terroristen. Il martirio di Ulrike Meinhof è il titolo della mostra che si apre oggi da Amantes Art Space Café, da lui curata con il patrocinio di Regione e Goethe Institut e con i contributi critici di Anna Lagorio e Massimo Novelli. è dedicata alla militante della Rote Armee Fraktion che la mattina del 9 maggio 1976 venne trovata impiccata nella sua cella nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, a Stoccarda, dopo quasi quattro anni di totale isolamento, anche acustico. Un anno e mezzo dopo, il 18 ottobre 1977, la stessa sorte toccò ad Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, altri tre appartenenti alla Raf, che dalla fine degli anni Sessanta avevano intrapreso la lotta armata teorizzando l' impossibilità di rovesciare con mezzi pacifici il sistema capitalista. Come per la morte della Meinhof, anche in questo caso vi furono accese polemiche sulla questione se si fosse trattato di un suicidio o di un omicidio per mano ignota. A quasi trent' anni di distanza, Ceste mette in mostra le fotografie segnaletiche apparse allora in Germania su manifesti e giornali per la cattura dei «Terroristen», trasformandole attraverso il colore, il ridisegno, il montaggio con altre immagini, e proponendone una lettura diversa. «Quelle foto sterilizzano corpi e volti, che da soggetti di comunicazione diventano oggetti di comunicazione - scrive nella presentazione - Le istituzioni ammoniscono i buoni sull' esistenza dei cattivi diffondendo l' immagine del nemico, perché sia riconosciuto, isolato e reso innocuo. La foto segnaletica annuncia pubblicamente che chi ha quella faccia deve essere punito». Ma la rielaborazione, avverte Ceste, non coincide con nessuna forma di giudizio, vuole piuttosto lasciare allo spettatore la possibilità di ricomporre altre emozioni e riflessioni. Nella mostra il concetto di terrorismo viene accostato a quello del martirio: così Ulrike è vista accanto a Giovanna d' Arco, presentata attraverso le immagini «segnaletiche» del film di Dreyer, visioni mistiche religiosi sono associate a visioni mistiche rivoluzionarie. «è quella stessa pulsione di sacrificio per un ideale (e giusto o sbagliato che sia, qui non importa) che continua pure oggi ad apparire da distruggere radicalmente ma nel contempo inconcepibile, non pensabile razionalmente, ai padroni del mondo. Con i risultati di sangue, di orrore, di follia, di guerra senza fine, che sono sotto gli occhi di tutti», scrive Massimo Novelli in un testo che collega il suicidio-omicidio dei militanti tedeschi a un' altra controversa uccisione, quella dell' anarchico Gaetano Bresci, che aprì drammaticamente «il secolo breve». Fino al 6 maggio, via Principe Amedeo 38/a, lunedì-sabato 19-2, info 011/8172427, www.arteca.org.

la Repubblica, 19/04/2005


Porca Miseria
Andrea Bajani

Chi non ha il senso dell’orientamento non riesce e mettere insieme le cose. Tende a ragionare per piccoli frammenti topografici, costruendosi delle geografie ridotte, dei piccoli spazi di manovra. È sempre alla mercé di qualcuno che, custode della visione d’insieme, si prenda carico del suo disorientamento e lo traghetti altrove, in un’altra sezione topografica. Chi possiede la visione d’insieme è in una posizione di potere, nei confronti del disorientato. Mantenere il disorientato nel suo disorientamento è garanzia di predominio, di egemonia. Non a caso, il sequestratore benda il suo ostaggio per tutto il tragitto dalla zona del sequestro fino al covo in cui verrà tenuto in prigionia.
Dopo di che, gli libera lo sguardo, e gli concede di costruirsi una propria ridottissima geografia, che sarà comunque troppo parziale perché l’ostaggio possa dedurne una collocazione, perché possa dire a chicchessia “Io sono qui”, e dunque essere salvato. Così, costruire micromappe del contemporaneo, suddividere il mondo in capitoli, per pagine, separare l’attualità dall’economia, la cultura dalla cronaca e dallo sport, riduce l’autonomia delle persone a poche manciate di metri, con una corda lunga quel tanto che serve a dare l’impressione di potersi muovere.
Così capita che si è grati a chi tenta di costruire delle mappe complessive, con gli scampoli topografici che si ritrova tra le mani. È il caso del documentario “Porca miseria”, firmato dal regista torinese Armando Ceste e pubblicato in questi giorni dalle edizioni Ega. La mappa delle miseria diventa un cortocircuito di discorsi tenuti troppo spesso separati, costruito forzando la suddivisione per pagine. Così le riprese macchina a spalla nei dormitori pubblici di Torino, fanno da controcanto all’incursione situazionista fatta insieme ai devoti di San Precario nei locali del call center dell’892424, ai cantieri faraonici delle Olimpiadi di Torino 2006, ai cancelli della Fiat coi cassintegrati in corteo, al teatro Regio di Torino con le coriste in sciopero ai tempi dei tagli del Fondo Unico per lo Spettacolo. Così i senza tetto scomparsi dai marciapiedi del centro della capitale sabauda durante i Giochi olimpici sono l’altra faccia del trionfalistico sventolare la bandiera a cinque cerchi da parte del sindaco di Torino. Allo stesso modo la carnevalata provocatoria del “minestrone precario” non è che un altro modo per dire quel che dice un operaio di fronte alla macchina da presa: “Facciamo come l’Argentina, andiamo a occupare i grandi magazzini”. E i 500 euro al mese di Rodolfo, l’ex dipendente Fiat in cassa integrazione dal 2000 (“In sei anni avrò lavorato quattro o cinque mesi”), stanno insieme ai 500 euro degli operatori del call center delle Pagine Gialle, e ai 500 euro di pensione dell’anziano signore pizzicato a rubare mandarini al supermercato e poi umiliato dalla sorveglianza.
Con la macchina in spalla Armando Ceste monta una disarmante, lapalissiana messa in scena della contraddizione. Forza dall’interno, con il montaggio, i meccanismi della comunicazione, che vorrebbero nuclei di senso coerenti in se stessi, persuasivi ed evidenti. Mette le une accanto alle altre le evidenze, ma è proprio in quel faccia a faccia, che le evidenze tradiscono le gambe corte che le sorreggono. “Il futuro si realizza”, urla lo slogan olimpico che Ceste cattura in una ripresa silenziosa in alta montagna, in cui si percepisce solo il rumore del vento e quella rivendicazione quasi ottusa a guardare soltanto avanti. È proprio in quella coazione a declinare tutto al futuro, che sta acquattato il germe della contraddizione. Come se realizzare il futuro equivalesse a “salvare le modifiche”, come chiede ossessivamente il computer prima di archiviare un discorso in memoria, eliminando con un clic ogni presenza del passato, cancellando i muri vecchi con lo stucco e la vernice. Come se il futuro non potesse realizzarsi se non dopo avere messo il passato nel cestino, e averlo poi dimenticato. Perché a guardare tutti avanti, a correre pavlovianamente incontro alla campanella del futuro, si finisce per non accorgersi degli altri che corrono di fianco.
Di qui la sensazione di solitudine che Ceste documenta drammaticamente, l’evidente perdita del “noi”, del senso della collettività: ciascuno a gestire il proprio allarme personale, ciascuno a disinnescare l’ordigno che si è trovato tra le mani. È il montaggio delle parti, che dà il senso della contraddizione, la giustapposizione delle manifestazioni dei metalmeccanici, quella dei lavoratori delle nuove generazioni, e quella dei lavoratori dello spettacolo. Messe insieme, disegnate su un unico foglio fanno una grande mappa, che è la mappa di quella che Ceste chiama miseria, ma che altro non è che un’unica dilagante precarietà, un senso di insicurezza che travalica le generazioni.
Che ha bisogno dell’imperativo euforico del futuro, per essere tollerata, e ha bisogno dell’oblio del passato, dell’istigazione a una solitudine all’ultimo sangue, per poter essere impartita. “Porca miseria” è allora un antidoto alla tendenza virale alla parcellizzazione dei discorsi, a isolare le parti dal tutto. Perché poi a metterle insieme, quelle parti, vien fuori un tutto diverso, molto meno rassicurante. Vien fuori quell’ “incubo della retrocessione” di cui parla Erri De Luca in un’intervista contenuta nel documentario, che si sta diffondendo come un virus a tutti gli strati della società, a dispetto della retorica ipocrita del “va tutto bene”. E a vederlo, “Porca miseria”, viene in mente il “Furore” di Steinbeck, sullo sfondo di una società che ha promesso di realizzare l’irrealizzabile, di dar corpo ai sogni. Vengono in mente quella paura, quell’incertezza, quelle facce in fuga: gli scarti del nuovo ordine mondiale.

la Repubblica, 13/10/2000


Askatasuna
Orsola Casagrande

Tra minacce di sgomberi e iniziative sempre più frequenti, Askatasuna diventa una realtà ben radicata nel quartiere. Il primo maggio del 1999 è una data importante per il centro sociale torinese. Askatasuna infatti partecipa alla manifestazione del primo maggio contestando la guerra voluta dall’allora premier di centro sinistra Massimo D’Alema in Kosovo. “Vergogna” c’è scritto nello striscione del centro sociale. Scatta la repressione, brutale, feroce. Una vendetta. Mentre i giovani stanno mangiando la grigliata al centro, dopo la manifestazione, la polizia fa irruzione nei locali. «I deportati in questura sono 114 – ricorda Ermelinda – la polizia distrugge tutto». Aggiunge Andrea che «si è trattato chiaramente di un’azione di ritorsione. Difficile dimenticare la violenza di quella giornata».
Una giornata che il regista Armando Ceste (scomparso prematuramente un anno e mezzo fa) fissa nel film “Rosso/Askatasuna (A proposito di un primo maggio di guerra)”. Armando raccontava così la sua determinazione nel realizzare questo film: «Mi ricordo che quel giorno non ero andato in piazza; ho dunque saputo degli incidenti e degli scontri dai giornali. Si capiva che era stata commessa una schifezza, ma non era chiaro cosa fosse accaduto. Passo spesso davanti all’Askatasuna; ultimamente mi ha colpito uno striscione enorme con la scritta “1-05-99 noi non scordiamo”. All’interno dell’Askatasuna ci sono molti spazi, fra questi uno è occupato da un gruppo teatrale. Uno dei ragazzi del gruppo mi parlò di quello che era successo e della loro intenzione di preparare uno spettacolo teatrale per raccogliere soldi per la ricostruzione del centro.
Ne parlai con Beppe Rosso, se aveva voglia di partecipare, e lui si dimostrò subito sensibile e pronto a fare uno spettacolo all’interno dell’Askatasuna. Abbiamo quindi organizzato a metà giugno questo spettacolo teatrale – Camminanti – dove si parla di intolleranza e di razzismo. Lo spettacolo andò bene, portandoci a contatto con una nuova realtà che, per ragioni sia storiche che anagrafiche, non conoscevamo. Prendendo a pretesto lo spettacolo, con Beppe, decidemmo di realizzare il film; non solo per raccontare la giornata del 1° maggio, ma anche per descrivere lo scontro tra due culture, dove il “diverso” (dall’immigrato allo squatter) viene come al solito criminalizzato, identificato col nemico».
Uno degli intervistati nel film di Ceste è Pasquale Cavaliere, consigliere regionale dei Verdi che si suicidò nel ’99 dopo altri due suicidi. Sole (Soledad Rosa) e Baleno (Edoardo Massari) erano due giovani anarchici che si opponevano alla costruzione del treno a alta velocità in Val Susa. Cavaliere fu l’ultima persona a parlare con Baleno. Una storia, quella della montatura giudiziaria contro i due giovani e il contesto in cui si muovevano, che rimane una delle pagine più nere per la città.

il manifesto, 02/12/2010


Da barbone a moribondo nuovo ciak per Volterrani
Massimo Novelli

Architetto, organizzatore culturale, traduttore dal francese, esperto di letterature mediterranee e africane, nel 2005 ha interpretato il ruolo di un barbone, che ruba mandarini in un supermercato, nel film Porca miseria di Armando Ceste. Finzione, sicuro, la sua. Ma fino a un certo punto, dato che su un quotidiano, qualche tempo dopo la proiezione dell' opera, si è visto trasformare in un clochard autentico, che si dà al furto per sopravvivere. Volterrani, con intelligenza e ironia, è stato al gioco, che pure aveva preoccupato non poco il suo direttore di banca dopo la lettura dell' articolo in questione. E ora lo ripropone nel nuovo film di Ceste, un regista torinese di assoluta indipendenza che dagli anni Settanta si cimenta in un cinema militante e di denuncia, dichiaratamente di sinistra, con cui cerca di raccontare e di decifrare il nostro tempo. Si chiama Amoreemorte, è in corso di ultimazione, nasce da un testo di Volterrani. E narra quanto segue: «Un uomo anziano, esperto in arte culinaria, solitario e filosofo, sta morendo. Mescolando sogno e realtà, passato e presente, ripensa al senso della sua vita, all' amore e alla morte, in cui la verità si confonde con la finzione.
Una testimone-spettatrice di questo monologo interiore (la soprano Alena Dantcheva, ndr) è una giovane infermiera bulgara». Morale: «Forse le cose si svolsero in tutt' altro modo, ma che importa la maniera in cui si svolgono le cose, dal momento che si svolgono?». Non è difficile ipotizzare che il lavoro di Volterrani e di Ceste sia stato influenzato e provocato da quanto era successo con Porca miseria, quando il cinema era diventato realtà (giornalistica) e a un attore, perché di questo si trattava, era stato fatto oltrepassare lo schermo per invadere la vita quotidiana, come non è accaduto veramente nemmeno ai surrealisti e ad altri protagonisti delle avanguardie artistiche e politiche del Novecento che inseguivano il superamento dell' arte nella vita. Non è importante, però, come si svolgono le cose, in quanto queste si svolgono comunque. Soprattutto oggi, nell'esistenza che, da un lato, è divenuta precaria e precarizzata per migliaia di persone, mentre dall'altro è fagocitata dal dominio del falso che diviene vero, in televisione massimamente, ma non solo lì. Lo avevano capito Guy Debord e il movimento situazionista, l'era del reality show è andata ben oltre le loro intuizioni di critici radicali. Niente da stupirsi, allora, che un intellettuale si metta a rubare mandarini, o che questi, una volta rubati, si rivelino fatti di plastica. Tutto è possibile, tutto scorre, tutto è un eterno verosimile presente.

la Repubblica, 26/08/2007


Due o tre cose. A proposito del cinema di Armando Ceste.
Giuseppe Gariazzo

Cinema soggettivo e militante, che esiste nell'istante “invisibile” in cui memoria e presente si toccano e generano un'immagine “nascosta” sospesa fra quelle esistenti. Cinema di lotta e teorico, dagli anni del Collettivo Cinema Militante di Torino a quelli, più recenti, in cui il filmaker torinese continuava a elaborare un proprio intimo e plurale percorso di riflessione, dentro il cinema e la società. Due o tre cose è il titolo di uno dei suoi lavori più folgoranti, complessi, poetici, gesto appassionato verso Godard (figura imprescindibile per Ceste, come Straub e Huillet – affinità da non nascondere nelle sue immagini di vibrante passione). È il testo, del 1994, che “riunisce” gli altri testi dell’artista torinese (grafico e tra i fondatori del Valsusa Filmfest, dedicato alla memoria e alla salvaguardia dell’ambiente) scomparso all’età di 67 anni, il film in cui documenti di età diverse, più che in altri lavori di Ceste, ri-assumono senso e attualità dal montaggio: bambini a una mensa proletaria, Godard in corpo e voce, fotografie del Che e l'immagine del suo cadavere, un'anziana donna a Katmandu…
Quello della memoria è il segno, denso e emozionale, teorico e ideologico, che fluisce nell'opera di Armando Ceste, esemplare segno di adesione nel tempo – a partire dalla fine degli anni Sessanta – a un progetto, a una militanza necessaria e inscalfibile, a un'idea di cinema dettata dal procedere e dalle conflittualità della vita, che si contamina con il pulsare del fuoricampo nella “ricostruzione” rigorosa e appassionata di frammenti di Storia e di storie. I suoi sono film-saggi difficili da incasellare, opere dall'identità immediatamente riconoscibile. La sua è una filmografia nel segno della carne e dell’anima, della funzione soggettiva del montaggio, della musicalità della voce, della memoria di volti che diventano spazi scolpiti nel tempo. Operai della Fiat, Anna Karina, Straub…
Tenendo sempre presente un punto di vista, estetico e politico, da non dimenticare mai. Argomenti e materiali incandescenti. Fra questi, e in ordine sparso, perché l’opera di Ceste è un continuo camminare, andare e venire, nel tempo: Jean-Marie Straub, la resistenza del cinema (1991); Anna Karina. Il volto della Nouvelle Vague (1996); Marzo 1973 – I giorni della Fiat (1993), con l'operaio Riccardo Braghin che si ri-guarda in video in immagini di vent'anni prima; Rosso/Askatasuna (a proposito di un primo maggio in guerra) (1999), sul centro sociale torinese distrutto dalle forze dell’ordine; Viaggio alla fine del mondo (dove le storie vanno a finire) (1998), conversazione con Adriano Sofri nel carcere di Pisa che prende avvio dalle esperienze di viaggio di Sofri, dalla rievocazione del suo reportage nella Terra del Fuoco; Aria di Golpe (1994), con Dario Fo e Franca Rame che rivedono e rivivono il loro spettacolo teatrale di vent’anni prima Guerra di popolo in Cile; Mai tardi (1996), rievocazione della Resistenza nella Val di Susa e percorso nella memoria, personale e collettiva, di un gruppo di partigiani; L'ultimo nastro (1991) e Finale di partita (1992), entrambi liberamente tratti dai testi di Beckett per parlare del terrorismo e dell’omicidio Moro; Lontano dal golfo (1991), là dove il golfo, e un'altra guerra, è invece così vicino negli occhi, nell'incredulità, nel dolore delle persone filmate; Abdellah e i suoi fratelli (2000), sulla tragica morte di un giovane marocchino costretto ad annegare nel Po da un branco di ragazzi; Porca miseria (2006), viaggio nelle nuove povertà urbane di Torino…
Avvenimenti che ci ri-guardano, di «un passato che non è morto, anzi non è neanche passato», come amava ricordare Ceste. Dove il ricordo e la memoria, e le immagini pre-esistenti, devono produrre nuove immagini, stimolare ancora e sempre nuove strategie di resistenza.

Sentieri Selvaggi, 19/04/2009